In questa sezione del sito denominata OSSERVATORIO sul Sistema Sanitario Nazionale, sono presentati una serie di "Articoli" di interesse per tutti gli Associati Feder Anisap.
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a cura di Giorgio Verdecchia

Abbiamo inaugurato l’Osservatorio Anisap sul Servizio sanitario nazionale ponendo il tema della Rivoluzione grigia della sanità italiana. Intercettata già molto anni or sono dai demografi, dagli epidemiologi e dagli esperti internazionali di salute, la cronicità ci viene oggi presentata nelle analisi e nelle proposte dalla programmazione sanitaria come un tifone che si sta avvicinando e sta per abbattersi sulla già traballante struttura del Servizio sanitario. Anche la specialistica ambulatoriale sente soffiare venti di tempesta e fa bene ad interrogarsi sugli sviluppi del fenomeno.

Una premessa indispensabile

Il tema è difficile da affrontare nell’economia di questo breve intervento. A titolo di premessa l’interrogativo che ci poniamo e al quale dobbiamo tentare di rispondere è se la Rivoluzione di cui si parla è veramente un uragano dai prevedibili effetti catastrofici o se non si tratta piuttosto di un lento mutamento climatico, tutto sommato assorbibile mediante gli ordinari adattamenti del sistema.

I dati parlano anche troppo chiaramente. Gli osservatori a livello internazionale (in primis l’Organizzazione Mondiale della Sanità) e nazionale (ISTAT) ci danno la misura del fenomeno in termini demografici e di spesa. Tutti convengono sul fatto che la cronicità è il vero grande problema di tutti i paesi industrializzati. Assorbe l’82-85 per cento della spesa e, soprattutto, richiede nuovi modelli di assistenza. Non è quindi una bolla costruita strumentalmente dai soliti catastrofisti e dai riformisti ad ogni costo. È un problema vero con cui dobbiamo misurarci. Prima lo facciamo, meglio è. Il dilemma è, semmai, capire come il nostro sistema sta reagendo alla sfida.

Per non affrontare il tema in chiave troppo ideologica, facciamoci aiutare dalle analisi di scenario più accreditate. Un osservatorio economico di tutto rispetto – il CREA Sanità del Dipartimento di economia e finanza di Tor Vergata – ha recentemente presentato un interessante Rapporto Sanità, nel quale ci offre una fotografia aggiornata del sistema sanitario e ce ne dà una diagnosi molto efficace, definendolo “sobrio e resiliente”. Sobrio perché ha risanato i deficit accumulati negli ultimi anni. Resiliente perché mostra di saper assorbire le avversità piegandosi alle spinte esterne senza giungere al punto di rottura e riprendendo dopo la sollecitazione lo stato di partenza.

La sobrietà del sistema sta ad indicare che in pratica la politica ha puntato tutto sul contenimento della spesa pubblica facendo pagare il conto al welfare. La crisi economica che ci attanaglia dal 2008 giustifica questa scelta.

La resilienza invece è un concetto più sofisticato. Può sembrare, almeno in apparenza, un elemento tranquillizzante perché sta a dimostrare la capacità del sistema di assorbire i cicli di crisi, ma deve preoccuparci, perché non lo protegge a sufficienza nel lungo periodo. Ci dice che chi sta al timone viaggia senza avere chiara la meta. Affronta le turbolenze a colpi di ritocchi e di tagli, mistificando gli obiettivi e tracciando rotte che possono scuotere le fondamenta della struttura erogativa, senza accompagnarla nel cambiamento, accrescendo l’incertezza sulle regole e scaricando i costi dell’insuccesso sugli operatori e sul cittadino. Ci dice anche che il sistema organizzativo reagisce alle oscillazioni della domanda e subisce la riduzione dei flussi di finanziamento riducendo l’offerta senza riuscire a modificare sostanzialmente le regole del proprio funzionamento. Il risultato finale di questa improvvida miscela di sobrietà e di resilienza lo possiamo toccare con mano. Il livello del finanziamento pubblico della protezione sanitaria, già basso rispetto alla media europea, arretra ulteriormente rispetto al fabbisogno crescente. Lascia scoperto il 25 per cento della domanda, che si riversa sull’ out of pocket delle famiglie disperdendosi nel mercato in rivoli di spesa privi di governo. Abbiamo tagliato i posti letto ed abbassato i tassi di ospedalizzazione rendendo le degenze sempre più brevi ed appropriate, ma non siamo stati capaci di riallocare strategicamente i risparmi investendoli sui servizi extra-ospedalieri per metterli in condizione di far fronte alla domanda di assistenza che l’ospedale non è più in grado di assorbire, né di coordinare sinergicamente l’apporto del secondo pilastro assistenziale, nel frattempo cresciuto.

Il sistema rimane inchiodato su obiettivi strategici prigionieri del mito del “tutto gratis, o quasi, a tutti”, nonostante la sua ormai evidente insostenibilità. Restano scritti sulla carta come parametro astratto da conseguire – ci riferiamo ai livelli essenziali di assistenza –, ma non siamo in grado di declinarli selettivamente, puntando sulle vere priorità. In una cornice di universalismo piatto, ma sostanzialmente iniquo, si tagli l’offerta e si prolungano i tempi di attesa. Rimangono insoddisfatti i bisogni di assistenza di larghe fasce della popolazione. Sempre più persone rinunciano alle cure. Scende l’equità e crescono in ultima analisi le aree di disagio e di esclusione.

È come se la politica rinunciasse a dire con parole chiare quale sistema sanitario vogliamo e come se continuasse a “sorvolare” un apparato erogativo osservandolo dall’alto senza preoccuparsi di vederlo impicciato a districarsi nelle maglie della rete stesa dalle norme e gestita dalla cultura burocratico-istituzionale, confidando nella sua resilienza.

Affrontare l’emergenza cronicità in questo scenario è un’impresa non facile. Possiamo continuare ad affidare la salute degli italiani ad un sistema di questo tipo, confidando solo sulla resilienza dello stesso? Crediamo di no. Chi, come gli operatori della specialistica ambulatoriale, mette al servizio del sistema salute la propria attività professionale e di impresa giocando un ruolo che non è quello di semplice fornitore, ma è quello di attore sociale, ha il dovere di preoccuparsi ed il diritto di far sentire la propria voce.

 

La strategia di gestione della cronicità

Forti di questa chiave di lettura dello scenario, tranquillizzane solo in superficie, possiamo ora ragionare con un certo grado di oggettività su come vediamo affrontata la rivoluzione grigia nel nostro sistema sanitario.

Ci sembra di poter dire che la parte più alta del governo del sistema, quella che traccia la strategia – ci riferiamo allo Stato e alle Regioni seduti insieme nella Conferenza dove ormai si decide tutto, ma non si è quasi mai d’accordo –ha preso finalmente coscienza del fenomeno e si sta rimboccano le maniche per trovare le vie d’uscita ad un problema che, pur riguardando sì e no il 30 per cento della popolazione, assorbe il 70 per cento della spesa ed impatta pesantemente sulla tenuta dei conti e sulla organizzazione dei servizi. Cosciente di non essere in grado di spendere di più – anche il DEF 2018-2020 preclude la via della richiesta di maggiori finanziamenti alle casse esangui dello Stato – e volendo sottrarsi all’accusa di logorare ulteriormente i livelli essenziali di assistenza, lancia un ambizioso programma di interventi dal sapore strategico: il Piano nazionale cronicità.

Il messaggio non ci sembra del tutto nuovo. L’abbiamo già orecchiato negli anni ‘90, quando si parlava della trasformazione aziendale ed economica del sistema, per vederla poi lascata ai teorici e inesorabilmente dimenticata. Avvalorata dalle indicazioni di un panel di esperti della Commissione Europea, ci viene ora riproposta con la formula della presa in carico e della gestione del paziente attraverso processi assistenziali pianificati ed integrati.

Stiamo attenti. Non si tratta di un ritocco di facciata. È la riproposizione di una sfida di sistema, che investe non superficialmente la riorganizzazione di tutte le aree, dalla medicina generale, alla specialistica, all’assistenza domiciliare e residenziale fino all’ospedale. Implica una rivoluzione culturale, reiteratamente dichiarata ma mai affrontata fino in fondo, nemmeno in questa occasione. Invece di incidere, cambiandoli radicalmente, sugli strumenti amministrativi ed economici, si confida piuttosto sulla resilienza del sistema affidata alla solerte capacità di governo delle regioni.

Non si può restare meri osservatori del modello verso il quale si sta tentando di orientare il sistema erogativo. È quindi molto opportuno che l’Osservatorio ANISAP apra una stagione di approfondimento e di dibattito sul fenomeno per stimolare e condividere contributi, idee, proposte e giudizi da parte di quanti vorranno intervenire.

 

Il modello teorico

 

Il modello su cui è costruito il progetto nazionale di gestione della cronicità ci sembra, a prescindere dal politichese con cui ci viene presentato, solido sul piano teorico. Ci parla di un sistema assistenziale che vuole prima di ogni altra cosa intercettare i bisogni, classificarli, segmentarli e valutarli in termini di tipologia e di intensità dell’assistenza per mettersi poi in condizioni di agire per soddisfarli in modo efficiente ed efficace. Ma non ci dice come e chi dovrà governare questo cambiamento. Il sistema dovrebbe ri-organizzarsi e mettersi a funzionare come un’azienda, esplodendo le funzioni strategiche ed impegnando il management esistente nella progettazione di processi di servizio coordinati ed integrati per effetto di forze demiurgiche che non vediamo. Rimane invece immerso nell’attuale mappa dei poteri e nella rete delle regole e degli strumenti amministrativi in essere. L’apparato dovrebbe magicamente mettersi a ruotare intorno al paziente cronico accogliendolo e guidandolo lungo un processo di cura improntato alla logica della medicina di iniziativa e non di attesa, mentre oggi è il paziente che ruota intorno all’apparato – accuratamente diviso tra l’ospedale da una parte e, dall’altra, un territorio funzionalmente segmentato ed operativamente polverizzato, assolutamente privo della benché minima organizzazione – nella ricerca della porta di accesso più vicina e più facile, superata la quale si ritrova però di nuovo solo nel labirinto degli erogatori.

Stiamo attenti. La riorganizzazione nella direzione indicata dal Piano non è il restauro della facciata dei palazzi o la sostituzione delle targhe apposte al loro ingresso, come purtroppo siamo abituati a fare. È una vera e propria rivoluzione copernicana, che investe il modello strutturale e l’intera cultura gestionale del servizio, impattando su tutti i meccanismi più profondi della struttura erogativa, innestandovi i principi aziendalistici del governo strategico distinto dal mangement gestionale.

Osservato più a fondo, il Piano ci sembra però galleggiare sull’astrattezza perché alle intenzioni ambiziose non associa la messa in campo dei mezzi adeguati. Tanto da legittimare il dubbio che si risolva nell’ennesima azione di puro e semplice contenimento della spesa, condotta con il mascheramento di formule approssimative che non aggrediscono in profondità i meccanismi strutturali che regolano l’amministrazione, il funzionamento ed il finanziamento dell’apparato produttivo immettendolo in una pericolosa deregulation.

Siamo quindi autorizzati a chiederci se siamo di fronte ad un sussulto di vero cambiamento del modello di assistenza o non invece ad un’operazione di facciata che non modifica lo status quo e, peggio ancora, immette nella macchina erogativa elementi di dirigismo poco trasparenti che stridono con i principi e i valori su cui si fonda l’impianto del Servizio sanitario nazionale, aumentano l’incertezza sulle regole del mercato e favoriscono alcuni a danno di altri senza lambire i veri bisogni del cittadino. Non sarebbe la prima volta che, immersa nella scarsa chiarezza, per non dire nella evidente mistificazione dei fini, la resilienza vince sul cambiamento lasciando sul campo come vincitori le tecnocrazie pubbliche e come e vinti gli stakeholder privati. È avvenuto per altre molto più incisive e decantate ondate riformiste. Il pensiero va alla riforma aziendalistica degli anni ’90, che doveva trasformare le USL da strutture operative dei Comuni in Aziende sanitarie ed ospedaliere responsabili di una virtuosa competizione in un quasi mercato accreditato e contrattualizzato e che invece sono diventate strumenti di protezione di ideologie politiche e di apparati pubblici servitori di dubbia efficienza.

 Pur accantonando il sospetto che la dichiarata volontà di cambiare le logiche di sistema nasconda il vero, più modesto e prosaico intento di contenere la spesa conservando l’esistente, non possiamo però non sottolineare che il difetto radicale e di fondo del progetto è quello di immaginare che la cultura del disease management possa calare su un apparato organizzativo che, così come è oggi strutturato, è refrattario alla logica della regia unica dei processi di servizio e alla responsabilizzazione di chi ne è titolare. Non giochiamo con le parole. Concetti come quelli di management, di presa in carico, di processo di servizio, di rete erogativa non albergano nel sistema e stridono con l’impianto giuridico-istituzionale dello stesso.

Dove sta il management? Management significa autonomia decisionale, ossia potere e capacità di scegliere tra più opzioni quella che soddisfa con la maggiore efficienza ed efficacia (economicità) i bisogni del paziente. Parlare di manager della patologia e non di medico a proposito del gestore della presa in carico, oltretutto vincolandolo alla gestione di processi predeterminati in via astratta e generale dagli uffici della Regione e calati dall’alto, lasciandolo privo di poteri effettivi sui fattori di produzione, è un vero non senso, un puro gioco di parole. Soprattutto se, come abbiamo sottolineato, la macchina operativa della sanità resta dispiegata sul territorio nel disordine più assoluto. Inceppati dalle autonomie tecnico-professionali, immersi in strumenti regolamentari, convenzionali e contrattuali, i processi di cura sul territorio si presentano più che come un’azione coordinata di “servizio” programmabile e controllabile, come congerie di supermarket aperti al pubblico dove il cliente è relativamente libero di muoversi, ma è lasciato solo nella scelta. In buona sostanza, con la presa in carico il progetto sembra voler immettere in questo corpo burocratico diviso e segmentato l’idea di sostituire la cura episodica delle manifestazioni della malattia affidata al singolo medico con la dimensione gestionale economica e coordinata, attenta alla combinazione delle risorse disponibili in funzione del migliore risultato possibile. In realtà, osservato più a fondo, l’affidamento della presa in carico al manager non è associato al riconoscimento né dell’autonomia decisionale nella progettazione dei processi né al conferimento dei poteri necessari per gestire e controllare lo svolgimento dei processi stessi, né all’assunzione di responsabilità per i risultati. Il gestore della presa in carico da un lato è chiamato ad attuare processi che sono in larga misura predeterminati a monte dal committente istituzionale mediate la costruzione del budget su set di prestazioni storicamente ricostruiti; dall’altro, è privo di strumenti amministrativi che possono incidere su un apparato produttivo impermeabile a qualsiasi forma di coordinamento che non sia quello consentito dalla vecchie regole amministrative vigenti (lo stato giuridico del personale dipendente, le convenzioni e gli accordi contrattuali con le strutture accreditate). In altri termini,

Stando così le cose, la figura del soggetto gestore della presa in carico non è un vero manager. Tutt’al più è un direttore dei lavori, o una segreteria operativa, probabilmente più efficiente e più efficace dell’attuale distretto, ma senza veri poteri e senza vere responsabilità.

Mancano quindi nel progetto, o sono debolissime, le condizioni di partenza e di contesto di quella che sembra essere l’affascinante rivoluzione copernicana della presa in carico. Il rischio è che tutto ciò resti nel libro dei sogni o diventi solo un capitolo di un ottimo manuale di organizzazione sanitaria il cui successo è affidato alla resilienza, cioè allo spontaneo quanto improbabile adeguamento degli attori tenuti intrappolati in regole amministrative vecchie e di tutt’altro segno.

Le criticità del modello nel progetto lombardo

Le criticità che abbiamo rilevato nel progetto nazionale esplodono puntualmente nei provvedimenti della Regione Lombardia, alla quale dobbiamo il progetto più completo ed in avanzato stato di attuazione.

La Regione si muove intorno a tre assi principali. Il primo asse identifica l’operazione – che gli aziendalisti chiamerebbero marketing – attraverso la quale si identifica la domanda, osservando e analizzando il mercato di riferimento, indagando i bisogni da soddisfare e selezionando le priorità. Il secondo asse identifica la fase della progettazione dell’offerta. Dato il quadro conoscitivo dei bisogni rilevati (patologie), si traccia la base predittiva dell’offerta indicando i processi assistenziali che si vuole garantire ai pazienti ascritti a ciascuna classe di patologia ed associando ad essi il costo previsto. Il terzo asse disegna il modello di affidamento in gestione dei processi al management identificato in un soggetto responsabile, selezionato tra imprese attrezzate per tale funzione, lasciando al paziente la facoltà di aderire al modello stesso.

Sull’asse dell’ analisi della domanda abbiamo poco da dire. La rilevazione e la classificazione del bisogno è un’operazione di marketing sociale eseguibile a tavolino associando i dati resi disponibili dai sistemi informativi gestionali alle patologie classificate secondo i criteri ordinariamente impiegati in sanità. Quanto la classificazione colga il dato di realtà, specie per quanto riguarda la compresenza di più patologie croniche l’insieme dei bisogni sanitari della persona cronica non strettamente legati a tale condizione e non possa formare oggetto di poco trasparenti manipolazioni è materia che lasciamo agli esperti di epidemiologia.

Molto più marcate sono le criticità che si manifestano lungo gli assi successivi, concernenti la progettazione e la gestione dei nuovi processi assistenziali.

Osservata a fondo la progettazione dei processi svela parecchie contraddizioni di natura e spessore diverso, nelle quali cogliamo come fattore costante il dirigismo istituzionale malcelato dalle dichiarazioni di intenti ispirate alla devoluzione dei poteri al management.

Con riferimento all’asse dalla programmazione dell’offerta assistenziale, la domanda che ci sentiamo di porre è duplice: chi progetta veramente l’offerta e come l’offerta è progettata. Crediamo di poter dire che la Regione, lungi dallo sviluppare la devoluzione dei poteri all’impresa alla quale affida la gestione della presa in carico nei singoli casi concreti, interpreta la progettazione dell’offerta in chiave autoritaria. Avoca a sé tutti i poteri in materia e, una volta individuato lo standard del set assistenziale riferito alle singole patologie, lo cala dall’alto sul gestore con i caratteri dell’indirizzo vincolante, quanto meno sul piano del budget di spesa. In questo modo, garantisce la tenuta dei conti, ma ridimensiona drasticamente lo spazio di autonomia concesso al gestore nella definizione dei piani assistenziali nei singoli casi concreti e finisce con l’annullare anche l’ambito entro il quale è possibile individuare la sua responsabilità gestionale. L’ingabbiamento per via amministrativa dell’autonomia e della responsabilità professionale del gestore nei set assistenziali predefiniti lo trasforma insieme al medico di medicina generale che con lui collabora in esecutore burocratico. Il vespaio di doglianze, proteste e riserve formulate dal mondo medico in merito al progetto lombardo sono segnali preoccupanti, che attestano i limiti della resilienza del sistema.

 Oltre a ciò si noti che la definizione del set assistenziale delle patologie è determinato più che su criteri di appropriatezza, come i principi dell’ordinamento consentirebbero, sui dati storici di consumo con l’aggravante di non tener conto né della frequentissima presenza di più patologie croniche, né di tutti gli altri bisogni assistenziali del paziente indipendenti dalla patologia.

Anche a voler riconoscere che l’operazione è lecita in sé, quanto meno nella misura in cui viene motivata facendo appello al principio dell’appropriatezza delle cure espressamente contemplato dalla legge come fondamento del diritto all’assistenza, non crediamo tuttavia che possa essere ritenuto metodologicamente corretto gestire l’appropriatezza in via amministrativa, trasformandola in uno strumento di controllo affidato alla statistica e alla tecnocrazia istituzionale ed ignorando che si tratta di un criterio di razionalità che va esercitato nel singolo caso concreto e verificato con l’ausilio di solidi parametri scientifici mediante valutazioni tecniche tra pari.

C’è poi da chiedersi fino a che punto gli organismi responsabili di questo delicatissimo compito di progettazione degli standard dell’assistenza siano scientificamente e tecnicamente attrezzati, nonché sufficientemente autonomi e “terzi” per garantire l’oggettività e la credibilità delle decisioni prospettiche. Dove stanno e che ruolo hanno gli osservatori nazionali e regionali, di quali professionalità sono dotate, qual è la loro autonomia tecnico-scientifica, come si relazionano con il mondo medico a livello scientifico ed operativo? Una maggiore attenzione alla consultazione di tutti gli attori mi sembra più che un’opportunità una necessità per scongiurare conflittualità sicuramente nocive al successo dell’operazione.

L’asse della gestione dei processi assistenziali è ancora più farraginoso e ricco di criticità. La identificazione della funzione della presa in carico – idea – chiave del modello nazionale – c’è. Ne viene prevista addirittura la remunerazione (oscillante tra un minimo di 35 ed un massimo di 45 euro per paziente arruolato secondo la complessità della patologia) distinta da quella connessa allo svolgimento di qualsiasi altro compito. Senonché la presa in carico viene estratta artificiosamente dal contesto dei compiti propri di chi ha la funzione di cura ed è affidata ad un soggetto imprenditoriale immaginato come distinto dal curante.

Alle evidenti difficoltà di identificazione del confine tra la funzione organizzativa e la funzione tecnico-professionale si aggiunge il difetto della debolezza assoluta del gestore in termini di effettivi poteri di definizione del processo di cura e di coordinamento della rete erogativa. Se per presa in carico intendiamo l’assunzione del potere e della responsabilità di programmare e gestire un processo di servizio utilizzando strumenti e risorse per risolvere un problema che l’utente non è in grado di risolvere da solo, è corretto scindere la funzione di presa in carico da quella tecnico-professionale del medico curante e prescindere dal fatto che il gestore non dispone di autonomia nell’impiego degli strumenti e delle risorse? Come non vedere che il gestore organizza processi predefiniti eseguendo ordini che vengono dall’alto e che si interfaccia con una organizzazione che non c’è? Di vero management non vi è traccia. Di rete erogativa, sempreché per rete si intenda un “sistema organico” di punti di servizio tra loro integrati predisposto per essere governato secondo una linea di comando che fa capo ad una regia, nemmeno l’ombra. La Regione conserva su di sé il potere di predeterminare i processi e la spesa presunta e, pur avendo tutti i poteri in materia di organizzazione dell’assistenza, sembra ignorare questo determinante dato di fatto. Di novità per quanto riguarda la strutturazione di quello che dovrebbe essere il terminale operativo della presa in carico secondo processi predefiniti e controllati, non vediamo traccia. Accanto alla roccaforte ospedaliera, sul territorio – malamente coordinato dal distretto – continua ad operare una pletora di soggetti erogatori – i medici di medicina generale più o meno aggregati, le farmacie, i centri specialistici e diagnostici, i presidi territoriali di riabilitazione, ma anche le nuove strutture territoriali multifunzione (case della salute), le residenze, le strutture di degenza territoriale gestite da medici di medicina generale e da infermieri (ospedale di comunità), i nuclei specializzati nella de-ospedalizzazione e nell’assistenza domiciliare integrata, le strutture specializzate per il trattamento dei disabili – ciascuno dei quali resta immerso nella propria ansa tecnica ed amministrativa senza essere in grado di offrire un servizio complesso ed integrato; interpreta la propria missione autoreferenzialmente rispetto alla propria qualificazione professionale, al rapporto di dipendenza, all’accreditamento e al contratto di servizio; risponde a linee di comando specialistiche che non parlano tra di loro; è amministrato sulla base di leggi, regolamenti nazionali e regionali, contratti di servizio altrettanto divisi ed autoreferenziali, se non addirittura autopoietici, sulla base dei quali fornisce le prestazioni; è remunerato a prestazioni e non a programma di attività. Rispetto a tutto ciò, il gestore della presa in carico non ha alcuna voce in capitolo.

In conclusione possiamo affermare che la funzione di gestione della presa in carico è costruita in modo artificiale ed è debole, troppo debole, quantomeno sul piano dei poteri di progettazione e di gestione attuativa dei piani di cura. Riceve dall’alto i piani preconfezionati e non ha strumenti per gestire la rete che non c’è. Il rischio che il progetto nasconda una manovra dirigistica di stampo burocratico è evidente.

Le incertezze si moltiplicano se andiamo a vedere chi è e cosa fa il gestore. Secondo la Regione Lombardia il gestore è una struttura sanitaria o socio-sanitaria già accreditata e contrattualizzata, che si dota spontaneamente di una organizzazione idonea per la presa in carico di un numero massimo di 200 mila pazienti. Co-gestore è anche un medico associato ad una struttura. Trattasi comunque di un soggetto che già sta nel sistema a pieno titolo come componente istituzionale o come partner erogativo di prestazioni. È da notare però innanzitutto che il gestore non è il medico curante, sede naturale e fisiologica di tutela della salute del paziente. È un’impresa sanitaria, pubblica o privata, accreditata e contrattualizzata con il Servizio regionale, magari formata da medici di medicina generale associati in cooperativa, che si attrezza e si candida per gestire la nuova funzione della presa in carico del piano assistenziale del paziente cronico a prescindere dai propri compiti di servizio. I dati resi disponibili dalla Regione ci parlano complessivamente di 291 gestori, tra cui 21 Aziende socio sanitarie territoriali, 41 cooperative di medici e pediatri, 20 Istituti di ricovero e cura pubblici e privati, 60 strutture sanitarie accreditate e contrattualizzate, 68 strutture sociosanitarie accreditate e contrattualizzate.

La scelta per il gestore-impresa dovrebbe segnare il superamento della burocrazia pubblica, di cui l’esponente emblematico è il distretto, e chiude l’esperienza non esaltante della medicina generale esercitata individualmente dal medico di famiglia nell’ambito della convenzione. Ci insegna che per gestire un servizio di presa in carico, la cui quotazione economica oscilla tra i 7 ed i 9 milioni di euro l’anno per il bacino massimo previsto di 200.000 pazienti, serve una organizzazione di una certa complessità che esonda dalla capacità del singolo professionista e del suo studio medico. Bisogna pensare a strutture capaci di operare come concessionarie di un servizio di tipo nuovo di cui condividono con il committente gli obiettivi e le responsabilità dei risultati. La Regione giustamente si preoccupa di accertare la presenza di un set di requisiti che attestino l’idoneità del gestore.

Secondo il progetto lombardo il gestore è quindi un’impresa sanitaria che già appartiene alla rete pubblica, in quanto accreditata per la erogazione di prestazioni sanitarie (ospedali pubblici, case di cura, presidi sanitari e sociosanitari, strutture ambulatoriali extraospedaliere, cooperative di medici di medicina generale). L’ idoneità a svolgere accanto ai propri compiti quelli della presa in carico forma oggetto di ulteriore specifica selezione da parte della mano pubblica condotta sulla base di uno specifico set di requisiti organizzativi. Tra le imprese accreditate il paziente cronico sceglie a chi affidarsi, valutando la qualità di ciò che offre.

 

Cosa fa il gestore così immaginato? si chiedono a questo punto in molti. In prima battuta il suo compito è fondamentalmente quello di gestire il servizio di presa in carico interfacciandosi non senza difficoltà con la rete erogativa, attivando e coordinando i nodi della rete, garantendo la libera scelta del paziente con il quale sviluppa una relazione proattiva e di accompagnamento lungo il percorso assistenziale. Peccato che, per quanto possa organizzarsi ed adoperarsi, non ha né i poteri né gli strumenti amministrativi necessari per rendere effettivo il coordinamento dei nodi della rete di servizio.

La Regione deve essersi resa conto della lacuna contenuta nella dicotomia tra gestiome della presa in carico ed erogazione delle prestazioni quando, chiusa la fase sperimentale, è corsa ai ripari spostando l’asse dell’affidamento della presa in carico sulle strutture ospedaliere o comunque complesse e polifunzionali, consentendo loro anche l’erogazione diretta di tutte o di parte delle prestazioni previste dal piano di cura, in proprio o ricorrendo ad una rete di partner.

Il cumulo delle due funzioni in capo a strutture di questo tipo si presta a valutazioni di segno opposto. Ripristina quell’unità della funzione di presa in carico e di cura che è il presupposto della regIia unica e che il progetto iniziale rischiava improvvidamente di spezzare senza garantire l’integrazione tra i due momenti. Ha il vantaggio di scoraggiare la presa in carico da parte di strutture deboli a forte vocazione mono-professionale. Resta il fatto che mette all’angolo il medico di medicina generale, comprimendo la sua funzione professionale di agente generale fiduciario della salute del paziente che l’ordinamento gli riconosce e per la quale continua a remunerarlo. Inoltre, cosa ancora più rilevante, innesca una poco trasparente deregulation del mercato erogativo, della quale la Regione non sembra preoccuparsi troppo, dal momento che, tracciato il perimetro delle spesa che intende sostenere, lascia al gestore e agli attori della rete il compito di autoregolarsi. È questo il “mercto regolato” di cui parla la legge? Gli effetti della deregulation sulla retedella specialistica esterna sono evidenti. Icui singoli nodi restano formalmente destinatari della libera scelta del paziente e continuano ad operare in competizione con gli altri attorisecondo i tetti assegnati dalla regione, ma rischiano di vedere ridotti i propri spazi e falsata la concorrenza se non si alleano con il gestore/erogatore.

La Regione, invece di intervenire con i poteri che pure ha e rivendica per modificare la struttura amministrativa dei nodi erogativi trasformandoli in un sistema organico assoggettato ad una chiara linea di comando facente capo al gestore della presa in carico, lascia le cose come stanno e consente al gestore stesso di insinuarsi con un ruolo improprio nel mercato regolato esistente, per sfruttare al massimo la propria dotazione operativa accreditata e contrattualizzata e per ricorrere gli altri nodi operativi accreditati arruolandoli attraverso accordi privati non trasparenti che si sovrappongono, turbandolo, all’assetto dai contratti di servizio. È la rinuncia del potere pubblico ad esercitare il proprio ruolo di governo del mercato regolato e la sua devoluzione alla libera iniziativa del gestore più dotato e più capace. Con le ricadute immaginabili sugli equilibri della competizione tra accreditati. Quando il gestore della presa in carico non si limita a dirottare il paziente presso tutti i nodi della rete esterna di riferimento, già accreditata e contrattualizzata secondo le regole vigenti, ma interviene erogando in house (direttamente o avvalendosi di partner contrattati), in tutto o in parte, le cure previste dal piano, si configura una concentrazione di poteri e di interessi che agiscono proattivamente in favore del gestore stesso a scapito degli altri erogatori. Abbastanza chiaro è il rischio di turbativa del mercato regolato e quello dell’insorgere di poco trasparenti conflitti di interesse nella gestione dei piani assistenziali.

 

Si capisce bene che è nel cumulo della funzione di presa in carico con quella di erogazione che si gioca la vera partita. Solo il gestore che dispone di una propria capacità erogativa, direttamente gestita ed eventualmente allargata mediante accordi privati con altri erogatori, è in grado di esercitare in modo pieno ed efficace la gestione completa del progetto di presa in carico, massimizzando i margini di vantaggio, sia funzionali che economici, derivanti dal cumulo delle funzioni. Chi si è mosso in vista dell’affare lo desumiamo dai dati che abbiamo riportato sopra.

Che fine fa la rete degli erogatori e come sono remunerate le prestazioni? Di ciò la Regione non sembra curarsi molto. Come abbiamo detto la nuova ed autonoma funzione di presa in carico è distinta dalla funzione erogativa. Quest’ultima, almeno per la parte non coperta direttamente dal gestore, rifluisce nella rete esistente degli erogatori già accreditati e contrattualizzati. I singoli nodi della rete forniscono la prestazione su richiesta dal paziente tramite il gestore della presa in carico attenendosi al sistema tariffario e al contratto di servizio stipulato con la Regione, senza nemmeno doversi più di tanto preoccupare di attivare processi di servizio riservati ai pazienti cronici e negoziati con il gestore. La remunerazione è imputata al budget loro assegnato secondo le ordinarie procedure.

Considerazioni di prospettiva

Sappiamo che il mondo ANISAP è preoccupato e molto critico rispetto al progetto di cui abbiamo parlato. L’intensità con cui il fenomeno è contestato sul territorio nazionale e le criticità che abbiamo evidenziato su come viene affrontato ci dicono che se la categoria non vuole pagare il prezzo di scelte non concordate, lasciando che le imprese difendano da sole localmente come meglio possono le posizioni conquistate, occorre attrezzarsi e costruire una posizione comune, facendo valere nelle sedi politiche la forza di una componente essenziale incardinata nella struttura del sistema erogativo che non vuole rimanere vittima della deregulation.

Ci siamo già espressi in più occasioni a favore di questa seconda opzione, ritenendola quella più efficace per garantire anche su scala nazionale lo sviluppo del settore e crediamo di aver dato in questo scritto sufficienti spunti per tracciare le linee generali di una strategia di difesa che abbia chiari gli obiettivi e renda esplicite e coerenti le linee di azione e le regole.

Un possibile piano strategico, alternativo al puro rivendicazionismo conservativo dello status quo, potrebbe utilizzare i temi che abbiamo suggerito per focalizzarsi sulla richiesta di maggiore trasparenza in merito agli obiettivi e di maggiore certezza in merito alle regole del gioco.

Quanto alla trasparenza degli obiettivi, torno a ribadire che basta leggere le carte per vedere che nell’effluvio delle fumose dichiarazioni di intenti, sia la strategia nazionale che quella lombarda ci propinano una miscela mistificata. Il vero obiettivo della sobrietà, ossia della tenuta finanziaria del sistema, non viene dichiarato e si mescola con speciosi obiettivi di miglioramento dell’assistenza in favore di una fascia, sia pure importante, della popolazione che si vuole conseguire nell’invarianza delle regole del gioco. Chiediamoci se è’ lecito che una Regione, o anche più Regioni, in assenza di una chiara legge di revisione dei principi sull’universalismo dell’assistenza, intervenga creando un’ansa settoriale di servizio riservata ad una specifica categoria di bisogni, negando analoga protezione ai bisogni dei soggetti stessi e della restante popolazione non leati alla croncità. E che intervenga stressando i principi fondamentali del sistema assistenziale (universalità, globalità, economicità, pluralismo e libertà di scelta, tanto per citarne qualcuno) e la struttura generale del sistema erogativo (distribuzione tra i diversi attori dei poteri/doveri e responsabilità di governo e gestione della produzione diretta e della committenza nell’ambito del mercato regolato, disciplina amministrativa delle relazioni funzionali ed economiche con i provider esterni, per ricordare i principali).

Se si vuole realizzare un nuovo modello generale di assistenza senza destabilizzarlo in do strisciante, lo si dica. Per affrontare la cronicità servono scelte coraggiose a livello strategico che non vediamo dichiarate in modo trasparente. Si vuole forse utilizzare la cronicità per tentare una sorta di “quarta riforma” del Servizio sanitario nazionale facendo giocare all’azionista regionale un ruolo di attaccante?

Quanto alla chiarezza sulle regole, abbiamo abbondantemente evidenziato come la presa in carico e le gestione del processo assistenziale sono formule prive di sostanza nell’attuale contesto amministrativo, difficilmente incardinabili nel rispetto delle regole di sistema e degli strumenti amministrativi esistenti. Confidare nel dirigismo regionale e nella deregulation della committenza in contrasto con l’ordinamento è pericoloso, foriero di disordine nel mercato e lesivo di interessi legittimi. Basta pensare, per fare solo gli esempi più vistosi, alla restrizione che si impone alla libera scelta del paziente; all’impervio coordinamento con le funzioni che la legge continua ad affidare al medico di medicina generale e che la convenzione disciplina solo per gli aspetti amministrativi ed economici; al sistema dei principi forti che governano la committenza delle prestazioni specialistiche ed ospedaliere attraverso l’accreditamento e gli accordi contrattuali.

 

 

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